In Kenya dopo le contestate elezioni del 27 dicembre, si è avuta la più grande migrazione etnica dalla fine del dominio britannico. Gli scontri di oggi però non hanno solo ragioni elettorali. Le loro radici affondano nel colonialismo, e negli espropri delle terre compiuti dopo l'indipendenza del 1963.
L'amministrazione coloniale britannica giustificò l'esproprio delle terre per i coloni europei, affermando che in Kenya c'era terra sufficiente per tutti, dato che la popolazione autoctona contava quattro milioni di abitanti. Oggi in Kenya vivono più di trenta milioni di persone, concentrate nelle uniche tre aree fertili del paese, e la domanda di terra è cresciuta a causa della mancanza di lavoro. I kalenjin e i masai e i kikuyu, persero la loro terra, finendo in quelle che i colonizzatori chiamavani "riserve indigene". La disoccupazione aumentò vertiginosamente e anche le proteste, così i britannici introdussero un sistema di "capi tribali", i quali non disdegnarono il pugno di ferro contro il popolo, al quale toccarono le terre aride, rocciose e senz'acqua. Grandi speranze furono riposte nel primo governo postcoloniale, quello di Kenyatta, il quale però accetto che i colonizzatori restassero "se lo volevano" nelle loro fattorie, e che le terre fossero ridistribuite mediante "accordi volontari tra venditori e compratori". Fu l'élite kikuyu ad acquistare la maggior parte della terra fertile, mentre i poveri di questa etnia furono sistemati dal governo nelle terre prima appartenute ai kalenjin. Oggi i più grandi proprietari terrieri del Kenya sono parenti dei tre unici presidenti che il paese ha avuto, Kenyatta, Moi e Kibaki. Secondo
sabato
ARTICOLO 2
22 maggio 2008 – Pisa
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